Il trauma psicologico è un concetto che fa riferimento a una ferita vissuta nel profondo della propria soggettività che può determinare delle modifiche nella percezione della realtà. Possono presentarsi diverse tipologie di trauma psicologico, di conseguenza è appropriato distinguere i “piccoli traumi” o “t”, con cui si fa riferimento a traumi di entità abbastanza lieve che non comportano notevoli cambiamenti nella percezione della realtà e i traumi “T”, ovvero traumi più intensi che possono compromettere la salute e la sopravvivenza del soggetto che ne è vittima. È appropriato quindi inserire nella prima categoria eventi come un’umiliazione subita o delle interazioni brusche con delle persone significative durante l’infanzia e nella seconda situazioni di grande portata, come ad esempio disastri naturali, abusi, incidenti.

Il DSM IV definisce il Trauma come: “Un fattore traumatico estremo che implica l’esperienza personale diretta di un evento che causa o può comportare morte, lesioni gravi o altre minacce all’integrità fisica” (American Psychiatric Association, 1994). Le conseguenze che si riscontrano in casi di trauma psicologico non fanno riferimento esclusivamente alle emozioni ma sono state riscontrate anche a livello cerebrale, in particolare è stato osservato un volume ridotto di ippocampo e amigdala. Le vittime di trauma psicologico, nella maggior parte dei casi, riescono a risolvere le reazioni allo stress in modo naturale attraverso un processo di integrazione delle informazioni relative a quell’evento con le reti mnestiche del cervello, rendendo l’evento “digerito”, ricollocandolo in modo costruttivo e adattivo e sviluppando un’adeguata capacità di narrare l’evento accaduto. In alcune situazioni le reazioni al trauma non si risolvono in modo così “spontaneo” ma si può sviluppare un quadro sintomatologico sempre più grave e complesso fino alla diagnosi di “disturbo post-traumatico da stress” in cui l’evento traumatico è costantemente rivissuto, continuando a provare tutte le emozioni, sensazioni e pensieri negativi esperiti in quel momento. Tenendo in considerazione gli effetti che può determinare l’esperienza traumatica vissuta, è appropriato riuscire a parlare dell’evento con qualcuno di fiducia a cui confidare le emozioni e gli stati d’animo provato.

Utile è, allo stesso tempo, essere consapevoli che le emozioni provate sono normali in quella particolare condizione anche se particolarmente intense e dolorose.
Le principali reazioni che si possono riscontrare durante e dopo un evento traumatico possono essere: senso di irrealtà, reazioni fisiche come tachicardia. Atri sintomi che possono verificarsi fanno riferimento a pensieri intrusivi, in associazione con disturbi del sonno oppure con difficoltà di concentrazione; si possono presentare anche condizioni in cui anche stimoli ambientali non direttamente connessi alla situazione traumatiche riattivino le emozioni e le immagini relative al trauma. Si può manifestare una maggiore vulnerabilità accompagnata da sensi di colpa e pensieri negativi in relazione al senso della propria vita.
Una situazione particolare è presente nel caso in cui il trauma è vissuto da bambini. Il trauma infantile può essere definito come la conseguenza mentale di un evento esterno e improvviso o di una serie di eventi altamente stressanti che provocano una sensazione di impotenza nel bambino e che determinano una rottura delle abituali capacità di coping da lui messe in atto. All’interno delle situazioni di trauma infantile rientrano tutti quei momenti in cui il bambino sperimenta condizioni di oppressione, paura o dolore, insieme ad una sensazione di impotenza.


I bambini, seguendo un costante sviluppo cognitivo, motorio e sociale, imparano anche a vivere tutte le emozioni alla stregua degli adulti.
Definita l’importanza della relazione del bambino con l’adulto di riferimento non solo nelle situazioni traumatiche ma anche nelle attività quotidiane principalmente quelle che possiedono una forte carica emotiva, è importante porre un’analisi della teoria dell’attaccamento, attraverso cui si valutano gli effetti della relazione tra adulto significativo e bambino nella costruzione delle esperienze di vita del bambino stesso.


Teoria dell’attaccamento e MOI


Conoscere approfonditamente la teoria dell’attaccamento è molto utile dal momento che attraverso essa è possibile definire una chiave di lettura rispetto a come ogni individuo struttura le proprie relazioni e il significato che attribuisce a ogni esperienza. L’attaccamento, infatti, non soltanto va a rilevare il tipo di relazione che si è instaurata tra bambino e caregiver ma dà anche delle indicazioni sui processi relazionali che il bambino metterà in atto lungo tutta la sua esperienza dal momento che lo schema che viene seguito si mantiene sempre costante. relazioni nel corso della sua esistenza. Bowlby ideò il concetto di Modelli Operativi Interni (MOI), facenti riferimento alla modalità relazionale sviluppata dal bambino a partire dalla prima relazione con il genitore. I MOI sono centrali, quindi, per comprendere come il bambino interpreta le diverse esperienze di vita, le interazioni con l’ambiente esterno e le alternative selezionate per affrontare le difficoltà.
Il concetto dei MOI è centrale, quindi, per riflettere su come le situazioni traumatiche vengono affrontate ed elaborate dal soggetto che le ha vissute in prima persona dal momento che a esperienze traumatiche simili non seguono sempre reazioni simili ma quest’ultime sono condizionate, oltre dall’evento in sé, anche dal significato soggettivo attribuito all’evento e proprio per tale motivo è opportuno fare riferimento ai MOI.


Nervo vago


La comprensione dell’esperienza traumatica è veicolata anche dall’approfondimento della struttura del nostro cervello, in particolar modo è importante indagare come avviene la connessione mente-corpo-cervello. Questo processo è realizzato per mezzo del nervo vago, ovvero il X nervo cranico che parte dal midollo allungato, facente parte del tronco dell’encefalo, e che arriva fino all’addome; è infatti considerato il più lungo nervo che attraversa il corpo umano.
L’importanza del nervo vago è determinata proprio per questa possibilità di attivare e mettere in connessione più parti del corpo. Il nervo vago è costituito sia da fibre afferenti che efferenti distribuite lungo le strutture del collo, del torace e dell’addome.


Teoria polivagale


L’analisi della reazione al trauma deve tener conto anche della struttura del nostro cervello dal momento che è proprio da tale organizzazione che dipende il modo in cui vengono attivati specifiche risposte e non altre. Questo modello di analisi del trauma prende avvio recentemente a seguito della definizione della teoria Polivagale di Porges (2010) attraverso la quale l’autore rileva come il nostro sistema nervoso, le cui parti si sono sviluppate in tempi filogeneticamente differenti, sia organizzato anche in modo gerarchico. Per comprendere dettagliatamente la teoria polivagale è fondamentale, innanzitutto, distinguere il Sistema Nervoso Centrale (SNC) che comprende la parte più superiore del cervello e quella più moderna e il Sistema Nervoso Autonomo (SNA) ovvero la parte più centrale del cervello e, allo stesso tempo, la più antica, posseduta anche dai rettili, a differenza del SNC tipico esclusivamente dei mammiferi.
Focalizzando l’attenzione sulla SNA è possibile individuare una divisione in sistema simpatico e sistema parasimpatico che entrano in gioco nelle situazioni di pericolo. La teoria ha permesso di rilevare un ulteriore distinzione del parasimpatico in dorso-vagale e ventro-vagale (da qui il nome polivagale). Il sistema dorso-vagale, non mielinizzato, è quello ancestrale, più antico; invece il sistema ventro-vagale, mielinizzato, è il più moderno, presente nei mammiferi permettendo le attività di sopravvivenza “sociale”, ovvero comportamenti di affiliazione e vicinanza, di collaborazione e aiuto reciproco. Il sistema dorso-vagale provvede alla regolazione dei processi vegetativi e del funzionamento degli organi posti al di sotto del diaframma; invece il sistema ventro-dorsale si divide, a sua volta, in due componenti ovvero una parte viscero motoria, che regola le viscere al di sopra del diaframma, assumendo quindi il nome di vago sottodiaframmatico (cuore e respiro), e una componente somatomotoria, che regola i muscoli del collo, della faccia e della testa (il sorriso, il contatto oculare, la vocalizzazione, l’ascolto).


In passato il sistema simpatico e parasimpatico erano considerati in contrapposizione tra loro dove il sistema simpatico è responsabile della nostra reattività, con risposte attacco/fuga con cui difendere la nostra sopravvivenza, mentre il parasimpatico ha un ruolo protettivo di riduzione dell’arousal e recupero dell’omeostasi. Con la teoria di Porges è stato possibile rilevare come in realtà non esiste una competizione tra questi due sistemi ma, piuttosto l’attivazione dell’uno o dell’altro è relativa alle caratteristiche specifiche dell’evento di pericolo vissuto. L’ordine di attivazione dei vari sistemi, di fronte a situazioni di pericolo, è di natura gerarchica. Entrando maggiormente nello specifico se l’individuo si trova in una condizione di sufficiente sicurezza attiva il sistema ventro-vagale, il più recente e quindi specifico dei mammiferi superiori e dell’uomo, che va a modulare i muscoli del volto e della faringe permettendoci di esprimere le emozioni con il volto, la voce, la prosodia e il respiro. Nel caso di attivazione di questo sistema si rileva un rallentamento del battito cardiaco e della respirazione ma in assenza di paura. Se, invece, il soggetto non si trova in uno stato di sicurezza bensì in condizioni di pericolo, si può osservare l’attivazione del sistema simpatico, filogeneticamente più antico rispetto al sistema ventro-vagale. In tal caso è possibile osservare uno stato di mobilizzazione caratterizzato da un aumento della tensione muscolare, dell’ossigenazione, della vasocostrizione e della frequenza del battito cardiaco; l’energia fluisce verso l’avanti e verso l’alto, la mandibola si serra e le emozioni sottostanti sono la paura e la rabbia. Questa sintomatologia è possibile dal momento che il simpatico regola la capacità metabolica e il battito cardiaco, ossia tutte quelle reazioni che, a livello fisiologico, sono collegate al meccanismo di attacco-fuga, la reazione di difesa elettiva del mammifero di fronte al pericolo. Il sistema simpatico, inoltre, in condizioni di pericolo tende a bloccare i processi digestivi poiché dispendono eccessive energie, necessarie, invece, a mettersi in salvo dalla situazione pericolosa che si sta affrontando.


In situazioni di pericolo estremo vengono messe in atto le stesse procedure di difesa che è possibile osservare nei comportamenti dei rettili e ciò è dovuto al fatto che si attiva la parte filogeneticamente più antica del nostro cervello, il sistema dorso-vagale, il quale provoca uno stato di rallentamento fino all’immobilizzazione che nell’uomo si manifesta con l’ottundimento mentale e la perdita del senso di controllo; le emozioni sottostanti sono tristezza, disgusto, imbarazzo e, ovviamente, paura. Quando il circuito dorso-vagale è attivo riscontriamo, nelle persone, uno stato di prostrazione: muscoli flaccidi, sguardo perso nel vuoto, cuore bradicardico e movimento del collo all’indietro (il movimento della tartaruga, come a volersi nascondere). Il corpo è stanco e pesante e tende al movimento verso il basso; si verifica un rallentamento delle risposte muscolari e scheletriche con riduzione dell’apporto di ossigeno. Lo stato dorso-vagale si associa frequentemente a condizioni depressive. Riassumendo nelle situazioni in cui l’ambiente appare al soggetto abbastanza sicuro è possibile un’attivazione del sistema ventro-vagale, man mano che le circostanze diventano più pericolose si ha un’attivazione del sistema simpatico e, in condizioni ancor più estreme, il sistema dorso-vagale.

È possibile individuare un’altra condizione che si rileva nel caso in cui la minaccia, inizialmente non considerata eccessivamente pericolosa, diviene costante portando il SNA a passare dall’attivazione del sistema simpatico a quello dorso-laterale. Tale passaggio è rappresentato, a livello comportamentale, dal freezing: un blocco vigile, caratterizzato da completa cessazione del movimento ad eccezione della respirazione e dei movimenti oculari, frequenza cardiaca sostenuta, muscoli rigidi e tesi, acutezza sensoriale. Si tratta di uno stato di congelamento vigile, in cui si prova forte paura e si comincia a dissociarsi dalle sensazioni corporee, per ridurre la sofferenza emotiva. Mentre il percorso di discesa da uno sistema più evoluto a uno meno evoluto può manifestarsi in modo repentino, il percorso opposto di risalita non si verifica con la stessa facilità e semplicità ed è per tal motivo che le persone che si sono trovate in una condizione di grave e costante allarme, con un’attivazione prolungata del sistema dorso-vagale, mantengono tale status anche nel momento in cui la situazione di pericolo è terminata, continuando a vivere come il pericolo sia ancora presente.


Il circuito ventro-vagale ci permette, quando siamo in condizione di sicurezza, di promuovere altra sicurezza; noi intercettiamo questi segnali attraverso l’interazione sociale, decodificando in modo istintivo messaggi che derivano dal contatto oculare e dalla voce, inviando segnali di risposta, entrando in relazione e promuovendo l’autoregolazione delle sensazioni fisiologiche.


Porges ha individuato 4 differenti cluster che possano definire una progressione di sintomi in relazione alle risposte fisiologiche interne.
1. Un’attenuazione del sistema di coinvolgimento sociale e, dunque, una riduzione dell’attività vagale ventrale, manifestandosi con un’espressione del volto piatta, in particolare nella parte superiore dei muscoli orbicolari, bassa reattività e un’elevata sensibilità ai suoni;
2. Un’elevata reattività e mobilitazione direttamente correlate all’attività del sistema simpatico, stato caratterizzato da una regolazione atipica dello stato emotivo con rapidi shift tra calma e reattività e da uno stato di ipervigilanza, tipico dei disturbi d’ansia e dei comportamenti impulsivi;
3. Un’alternanza tra sistema simpatico e dorso-vagale, che si manifesta con una vulnerabilità al collassamento e alla dissociazione. Si caratterizza per episodi di ipotensione, assenze o restringimenti dello stato di coscienza, fibromialgie, problemi intestinali e comportamenti di ridotta mobilizzazione;
4. Una condizione di dissociazione vera e propria che si manifesta con il collassamento cronico (shut down) determinato dall’attivazione del sistema dorso-vagale, come risposta difensiva generalizzata a diverse situazioni di stress o di pericolo percepito. Questo ultimo cluster è molto frequente in persone vittime di abuso o di violenze e si tratta di una risposta estrema di difesa ad una minaccia potenzialmente letale.


La teoria polivagale è stata utilizzata anche nell’analisi degli eventi traumatici, i quali si caratterizzano per un’assenza di tutti quei fattori di natura sociale, prima fra tutti l’interazione sociale, che permettono all’uomo di percepire l’ambiente circostante sicuro. È possibile osservare l’attivazione di uno stato dissociativo nella persona, la quale cerca, in questo modo, di distanziarsi da contenuti emotivi dolorosi; si verifica, a livello cerebrale, la violazione di “un’aspettativa neurale”, determinata dalla mancanza di reciprocità nella relazione e dall’assenza di sintonizzazione. Per comprendere meglio tale situazione è utile tornare alla teoria dell’attaccamento, in particolare allo stile di attaccamento disorganizzato dove la figura di attaccamento è, allo stesso tempo, colui che determina la condizione di paura nel bambino il quale, di conseguenza, non riesce a bilanciare l’attivazione del sistema di difesa con quello di attaccamento; inoltre il bambino rileva un’impossibilità di mettere in atto una risposta di attacco/fuga e quindi ritiene maggiormente appropriato sviluppare una difesa ancora maggiore con la finta morte, quindi con l’attivazione del nucleo dorso-vagale ostacolando le funzioni integrative superiori della coscienza.


La Teoria Polivagale ci permette anche di comprendere le reazioni che si notano in molte vittime di stupro. Quando ci si sente in pericolo, nel nostro cervello si attiva immediatamente il sistema di difesa. Immediatamente nel senso letterale del termine: questa reazione repentina, infatti, non è mediata dalle zone corticali, dalle funzioni superiori, ma si sviluppa nella parte evolutivamente più antica del cervello, il tronco encefalico, in cui hanno sede gli istinti che ci accomunano con gli altri animali. Questo significa che le reazioni di difesa non sono il frutto di una decisione volontaria e razionale, ma sono automatiche, non controllabili e producono il comportamento che il cervello in quel momento ritiene più utile alla sopravvivenza.

Quattro sono le possibili risposte del sistema di difesa: freezing, fight, flight e faint.
· Il freezing, o il congelamento, è immobilità tonica in cui corpo è bloccato, ma i muscoli sono in tensione, pronti a scattare non appena il cervello, sempre a livello automatico e involontario, avrà valutato il comportamento più utile alla sopravvivenza da mettere in atto;
· Il fight, flight, ovvero la reazione di attacco o fuga;
· Il faint, o l’immobilità ipotonica, quando nessuna delle reazioni precedenti pare utile a fronteggiare il pericolo, l’unica risposta possibile è la brusca riduzione del tono muscolare, accompagnata da una ridotta percezione di ciò che sta accadendo in quel momento, un distacco dall’esperienza.


In situazioni in cui il trauma ha determinato un’attivazione costante del sistema dorso-vagale è importante strutturare in modo appropriato la pratica clinica, il cui punto nodale può essere considerata la “regolazione o disregolazione emotiva”. Un aspetto molto importante della terapia in tali situazioni fa riferimento alla funzione del terapeuta come co-regolatore della stato emotivo e mentale del paziente; quando questo scambio avviene in modo positivo e adattivo, la co-regolazione degli stati emotivi favorisce l’emergere di nuove e incredibili capacità prima inesplorate. La sicurezza che il terapeuta permette al soggetto di sperimentare un contesto di sicurezza che diviene un elemento di base finalizzato all’incremento di momenti positivi all’interno dei quali il soggetto può sperimentare dei cambiamenti significativi. Nel caso in cui tali terapie vengono strutturati con bambini è possibile aiutarli nel rimodulare i loro MOI, definiti a partire da una negativa relazione di attaccamento.

Per ottenere tali risultati è di centrale importanza valutare ciò che accade nel soggetto dopo aver subito un trauma o una serie di traumi minori che hanno cumulato i loro effetti: se la neurocezione, ossia capacità di valutare l’ambiente come sicuro o pericoloso, è compromessa, è essenziale restituire al paziente un senso di sicurezza che passi anche attraverso le sensazioni corporee. Se è attivo il circuito dorso-vagale si cerca di stimolare l’energia riportandola verso l’alto e l’esterno; se, invece, c’è un’attivazione eccessiva del sistema simpatico si cerca di riportare l’energia verso il basso valorizzando le sensazioni di autoregolazione; per far uscire il paziente dal freezing (in cui il sistema simpatico è attivo, ma in termini di paura) l’attenzione va spostata al dopo. In tutti e tre i casi è utile porre l’attenzione innanzitutto sul qui e ora e non sul contenuto del trauma, con l’obiettivo finale di riattivare il sistema ventro-vagale, il quale permette al soggetto di incrementare ulteriormente il livello di sicurezza percepito dal soggetto. Tale obiettivo può essere raggiunto aiutando il soggetto a sperimentare sensazioni corporee e vissuti positivi, in modo che acquisti confidenza e familiarità con uno stato di regolazione; utile può essere, ad esempio, lavorare sul respiro, con il canto ed esercizi di coerenza cardiaca. Un altro aspetto rilevante in tale assetto terapeutico è il contatto visivo poiché è il principale canale attraverso cui si apprendono i comportamenti di regolazione.